FREUR ANNI 80 Underworld anni 90
L'era pre-techno. Doot Doot.
Vedendo il cranio lucido di Karl Hyde che emerge dalle luci stroboscopiche degli ormai leggendari live set degli Underworld, si fa fatica a credere che poco meno di vent'anni fa era un capellone cotonato, vestito di lustrini e strizzato in pantaloni a sigaretta. Già, perché negli anni 80 Karl Hyde e il suo storico partner musicale Rick Smith mandavano avanti un gruppo synth-pop chiamato Freur, il cui maggior successo fu il trasognato singolo "Doot Doot", numero uno delle classifiche italiane del 1983.
Erano i tempi del tripudio dei synth analogici e dei rossetti fucsia, ma i Freur valevano poco sul mercato rispetto ai mostri sacri dell'epoca (Soft Cell, Pet Shop Boys, Human League) e la loro label dell'epoca, la Cbs, non ci mise molto a scaricarli. Cambiare il nome in Underworld e far uscire due dischi di funk-rock piuttosto insipido (Beneath The Radar nell'88 e Change The Weather nell'89, che citiamo qui per mera cronaca) non cambiò molto le cose. Dopo aver fatto da spalla nell'ultimo tour americano degli Eurythmics (naturalmente prima della recente reunion del duo Stewart-Lennox). Gli Underworld erano musicalmente e fisicamente alienati dalla scena.
Gli anni 90. Il suono Underworld.
Ma qualcosa stava cambiando, in quegli anni impasticcati e confusi che stavano salutando gli Eighties e aprendo i Nineties. Le parole che dovrebbero affacciarsi nella mente del lettore ora sono acid-house, Detroit-techno, hardcore, progressive (nell'accezione elettronica del termine). Hyde e Smith, tornando a casa, troveranno la loro Uk travolta dal vortice dei rave e di quel nuovo modo di produrre - e di vivere - la musica elettronica, che a noi oggi pare tanto normale. Per assurdo, mentre sul fronte pop-rock il suono leccato e il canto impostato degli 80 (per dirla con le parole di Hyde: "Quella musica minimale, cruda, smutandata") veniva ripudiato con disgusto, i pionieri della moderna dance music (Derrick May, il papà della techno; Marshall Jefferson, il papà della house, la neonata Warp Records) facevano tesoro dei numerosissimi elementi innovativi musicali e tecnologici emersi proprio nei tanto bistrattati 80. Tutto ciò è molto importante per capire perché l'album che ha portato nel mondo il reale suono degli Underworld è considerato uno dei più importanti dischi del decennio.
Prima di incidere Dubnobasswithmyheadman (Junior Records, 1994), infatti, gli Underworld "adottano" un terzo membro, Darren Emerson, giovanissimo dj inglese, parecchio a suo agio nella scena acid-house del momento. L'intento dichiarato è entrare nel mondo dei club, dimensione musicale che stava già esplodendo, e fare a meno di una band dai ruoli canonici.
Se Hyde e Smith furono lungimiranti a investire nella figura del dj (oggigiorno celebre e ben pagato quanto la rockstar), altrettanto lungimirante fu Emerson a salvaguardare l'esistenza della vecchia impostazione musicale del duo, contribuendo alla formazione di quei caratteri distintivi degli Underworld, che sono ancora oggi loro peculiarità: la propensione alle suite melodiche nelle parti vocali; l'uso delle chitarre; le ondate di synth, ipnotiche e isolate; e infine i riff staccati e sognanti, strascico del vecchio ambient-pop di "Doot Doot".
Una esemplificazione perfetta di tutto questo è la canzone-bandiera di Dubnobasswithmyheadman, la famosa "Mmm Syscraper I Love You": le tastiere aprono una acida cerimonia di techno bassa e nervosa, guidata dal canto di Hyde, tanto caldo e melodioso nelle strofe quanto pungente e ipnotico nei momenti in cui il ritmo incalza, fino a diventare ossessivo e sincopato più di una volta ("Dark And Long", "Surfboy", "Spoonman"). Sono i primi vagiti del drum'n bass, costola avvelocitata, bassa e acida della techno, dove i "bass" dominano in modo assoluto la scena incalzandosi a vicenda, seguendo un'eco potenzialmente infinita, mentre i "breaks" percorrono come lampi di luce questa oscura marcia suburbana.
"Porn dogs sniffing the wind for something violent" non è che una delle liriche acido-metropolitane di Hyde. Gli Underworld celebrano, con versi al limite del nonsense, una città svuotata, alienata, selvaggia e primitiva. Una specie di scenario fanta-fightclub dove la musica è visiva: è uno schermo che filtra la percezione della realtà allo stesso modo di un allucinogeno. (Non a caso, gli Underworld sono uno dei primi gruppi ad accompagnare le performance live con le cosiddette "Visual Art", sequenze d'immagini proiettate sullo schermo appositamente per accompagnare corrispondenti sequenze di suoni.)
Composizioni come "Tongue" e "River Of Bass", in equilibrio fra nebbia underground e raggi di luce riflessi dai vetri dei grattacieli, richiamano quasi la dicotomia (litania oscura/slanci melodici verso atmosfere pure e rarefatte) del suono trip-hop, altro movimento musicale che stava facendo capolino da Sheffield.
Nello scenario del 1992, l'originalità e il tempismo degli Underworld hanno qualcosa di eccezionale. Il loro suono era tanto più particolare quanto le label dell'epoca avversavano le parti vocali nella musica dance, e quest'ultima era ghettizzata nel pubblico, nei concerti e nella promozione. Era non-musica. Ma le cose stavano per cambiare.
La techno popolare. Born Slippy.
Second Toughest In The Infants (Junior Records, 1995), il loro secondo e semi-dimenticato capitolo, musicalmente non ha nulla da invidiare al debutto. E' piuttosto la sua naturale evoluzione: se gli Underworld non rinunciano alle loro affascinanti litanie techno, raggiungendo livelli compositivi ancora superiori, continua il contributo del trio alla maturazione e alla diffusione del suono drum'n bass. Hyde, Smith ed Emerson precorrono ancora una volta i tempi con una versione più soft, ambientale, quasi chill-out di quest'ultimo genere. Suburbana quanto il trip-hop, ma più liquida, fluida, calda: ascoltare "Banstyle/Sappy's Curry" è come guardare la metropoli brulicante di vita notturna dalla morbida e accogliente poltroncina di un taxi. Questo è il disco in cui il suono degli Underworld diventa definito e totalizzante, e il pop struggente di "Stagger" non è che una meravigliosa sigla finale alla sintesi del primo, validissimo singolo, "Pearl Girl".
In verità, l'impolveramento repentino di Second Toughest In The Infants ha un suo determinato colpevole. Come inedito pubblicato come singolo nello stesso anno, infatti, fu scelta una canzone di cui il mondo avrebbe sentito parlare: "Born Slippy".
Titolata in omaggio a un levriero da corsa, questa nenia techno-progressive (non essendo questo tempo e luogo per soffermarsi sul complesso significato di "progressive" nella musica techno-house, il lettore più curioso si accontenti di considerarla (ab)uso di brevi loop di suoni, finalizzato alla catarsi del ritmo) vanta una delle più clamorose introduzioni di tutta la storia della musica. E' proprio l'eco stentorea e insieme sognante di un brano "nato scivolando" a colpire, tra gli altri, il regista Danny Boyle, che la sceglie come colonna sonora del film-culto "Trainspotting" (1996). Il rimbalzare avvolgente degli unici due accordi della canzone accompagnano il monologo finale del protagonista, lo storico "choose life": dipinto amaro e spietatamente sincero di una generazione, quella della gioventù anni 90, che ha perso, che si arrende; vittima dell'eroina, dell'acid-house e della sua stessa rabbia disperata. "Born Slippy" diviene automaticamente l'inno definitivo dal respiro anelante di quegli anni, e segna un punto di svolta nella musica elettronica. Dopo la sua endemica diffusione, che le porta la notorietà di uno storico hit pop e la rende probabilmente il pezzo techno più noto al mondo, dopo le sue riduzioni radiofoniche (per evitare i 7 minuti di cassa hardcore, poco sopportabili per l'ascoltatore medio, i playlister la mutileranno spesso della parte centrale, un po' come successe all'assolo strumentale di "Light My Fire" dei Doors), si dirà: la dance music è morta.
In realtà, "Born Slippy" non fa che chiudere nel migliore dei modi un capitolo troppo spesso trascurato della musica, quello che narra le vicende di Underworld, Prodigy, Chemical Brothers, Primal Scream, ovvero le formazioni che più hanno contribuito, con l'uso del canto e di sonorità particolari, alla fine della ghettizzazione della musica elettronica, al suo ingresso trionfante nelle classifiche, nei festival rock (la prima presenza degli Underworld a Glastonbury nel 1992 ha qualcosa di storico; la ripeteranno sette anni dopo davanti a un pubblico formato U2), e, soprattutto, alla sua diffusione globale.
Il capolavoro. Beaucoup Fish.
Tornando a noi, dopo la reissue di "Born Slippy" (il singolo "Born Slippy NUXX") e un tour infinito che diventerà in seguito un ottimo disco live (Everything Everything, Junior Records, 2000), gli Underworld hanno ancora qualcosa da dire (a parte svariati remix per grandi nomi dei 90 come Björk, Massive Attack, Depeche Mode, Leftfield e Everything But The Girl) a questa dance music che pare tutt'altro che moribonda. Nel 1998, infatti, tornano in studio a produrre quello che probabilmente è il loro capolavoro definitivo, il loro " Abbey Road ": Beaucoup Fish (Junior Records, 1999). Il nome richiama New Orleans e miscuglio di suoni e culture, un intento dichiarato e rispettato. Con maggiore definizione rispetto ai precedenti lavori, emerge in questo disco la più grande dote degli Underworld: nell'elettronica, dove un genere nuovo è soltanto un vetro che si spezza immediatamente in mille altri frammenti, essi riescono ad abbracciare con lo sguardo una skyline della musica che non sarà magari completa, ma suona imparagonabilmente esaustiva, ricca, superiore; techno e trance si intrecciano con molteplici elementi sonori in forme cangianti, verso la sublimazione.
Beaucoup Fish è un viaggio di scoperta: "Cups", apnea bassa, distorta, intervallata da stacchi che sembrano i respiri di un nuotatore, muore poi trionfalmente in un assolo di tastiere acide. "Push Upstairs", un altro singolo storico basato sulla voce di Hyde, su cascate di acid-techno e tonalità morbide di accordi (quello stesso genere di tonalità vanta ora il nome di "old school"). "Jumbo", che sposa il dream-pop e il minimal drum'n bass con un semplice "click". "Winjer", quattro minuti di techno tribale seguiti da quattro struggenti minuti di ballata digitale ("Skym"). "Bruce Lee", che accarezza il breakbeat (in fiore proprio in quei tempi, grazie all'opera di Chemical Brothers e Fatboy Slim). Poi le loro celeberrime marce sincopate ai margini dell'hardcore-trance ("King Of Snake", "Kittens", "Moaner"), un esempio per chiunque faccia musica da club: mai noiose, mai scontate, mai imprecise. Gli Underworld usano ritmi, bassi e breaks con una tempistica semplicemente perfetta, e con "Push Downstairs", lo specchio nero del ritmo galvanizzato della gemella "Push Upstairs", il suo negativo, il "down" che segue la calata, l'aria fredda dell'alba, con le casse che ancora ronzano nelle orecchie, gli Underworld impregnano di realtà e di pura bellezza il loro disco più bello, un vero capolavoro. "These are my intentions", canta Hyde a nome di ciascun emozionato ascoltatore.
Addii. Contemporaneità.
Di gran lunga inferiore è invece l'ultimo studio album, A Hundred Days Off (JBO, 2002). Anche volendo interpretare la dipartita di Darren Emerson (ora un dj house della scena Ibiza) come un indebolimento generale della loro incisività musicale, il disco si regge malamente su un livello minimo di immaginazione, o per dirla senza smancerie, è semplicemente brutto. Salvo qualche (raro) momento in cui le tastiere Underworld tirano di nuovo fuori il vecchio mordente ("Two Months Off", "Little Speaker"), il resto è noia mortale e la voce di Hyde sembra non poterci fare niente.
Le ultime uscite del duo sono la raccolta dei singoli ("Anthology 1992-2002", JBO, 2003), che può essere cosiderata come un buon best of per chi vuole avvicinarsi al gruppo; e, dello stesso anno, una re-reissue del singolo "Born Slippy", da non perdere per gli amanti della sottile arte del remix.
Nel 2006 è uscita Breaking & Entering Soundtrack, colonna sonora dell'omonimo film, in cui il duo è affiancato da un collaboratore già più che rodato, quel Gabriel Yared che ha accompagnato splendidamente le sequenze più belle di pellicole come "Il talento di Mr. Ripley", "Il paziente inglese", "Cold Mountain" e "City Of Angels".
Un anno dopo arriva il nuovo album, Oblivion With Bells, un disco normale, con un paio di errori grossi, dovuti a mancanze di gusto inusuali per una band che ha sempre fatto della classe uno dei suoi marchi di fabbrica, nella fattispecie “Ring Road” e “Boy, Boy, Boy”, ma con ancora il genio di una volta che si aggira sotterraneo per uscire e mostrarsi in tutta la sua bellezza.
“Beautiful Burnout” raccoglie i fasti di una volta, quel flusso di coscienza tipico del cantato di Hyde torna a sposarsi con il ritmo incessante di Smith, si vola altissimi dentro una trance dilatata sotto le parole filtrate. C'è lo spirito di “Born Slippy” girato e messo sotto frazione. È l'unico punto di contatto con una storia andata, assieme alle aperture ambient di “Best Mangu Ever”, che danno ancora traccia di estro e vitalità.
Quel che rimane è maniera, precisa e curata, con cui baloccarsi per qualche volta e poi scordarsene rapidamente, sperando ancora che il prossimo sia il giro buono, tra qualche altro anno, tra qualche altro incontro inaspettato.
Contributi di Alberto Guidetti ("Oblivion With Bells")
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